la mia storia

Jolanda Gaia

Un paio di settimane fa in reparto ho rivisto, con mia grandissima gioia, un piccolo paziente che mi è corso incontro per salutarmi con grande affetto.
L’avevo lasciato, mesi prima, debole e triste perché temeva di non poter tornare a giocare con i suoi compagni.
Subito mi disse che stava bene, così aveva potuto rientrare all’asilo e divertirsi con i suoi compagni.
La mia giornata si è improvvisamente “illuminata”, nel senso vero del termine, guardando quel faccino sorridente che mi diceva “dai, giochiamo ancora ad UNO?”
Mi piace pensare che il reparto dei bambini cardiopatici sia come una grande famiglia; quando poi, noi volontarie, incrociamo un paziente che torna più volte per visite e controlli, è come ritrovare qualcuno di casa, a cui si vuole bene.
È per questo motivo che non è possibile non lasciarsi coinvolgere, non partecipare alla gioia e ai dolori dei bambini e dei loro genitori.
Quante mamme, papà e nonni amorevoli e coraggiosi ho incontrato e quante storie di vita vissuta ho ascoltato.
Quanti abbracci ho dato e ricevuto e quante volte ho condiviso il dolore, l’angoscia, la paura del dopo, cercando di infondere coraggio con gesti e parole.
Non sempre è facile entrare in sintonia con adulti e piccoli, ma questa è la grande sfida a ogni nuovo incontro; quando poi si riesce a conquistare la fiducia dei nuovi arrivati, allora la giornata acquista un valore particolare e si arricchisce di significato.
Quando iniziai questa esperienza ero un po’ titubante. Non mi sembrava possibile riuscire a portare consolazione dove c’era dolore. Invece mi sono accorta che, venendo a contatto con la sofferenza, specie quella dei piccoli e piccolissimi, ci si dimentica di se stessi e il grande obiettivo diventa coccolare, scherzare, giocare, aiutare quelli che sono diventati anche un po’ i “miei bambini”.